(di Angelica Lepori)

Elle Kappa

In questi ultimi anni la legge sull’Assicurazione invalidità è stata oggetto di diverse revisioni che avevano come scopo ufficiale quello di permettere un migliore reinserimento professionale degli invalidi. Obiettivo senz’altro nobile, perseguito però senza troppo pensare al contesto nel quale si vorrebbe operare questo reinserimento e viziato per altro dalla necessità, nemmeno troppo nascosta, di ridurre le rendite di invalidità e sistemare i conti dell’assicurazione stessa.

Proprio recentemente il consigliere federale Burkhalter ha dichiarato che le revisioni hanno prodotto risultati positivi permettendo di ridurre in maniera importante le rendite e contribuendo così a risanare i conti dell’AI. Le prossime misure di risparmio saranno quindi, sempre secondo il ministro, meno rigorose e dolorose. La realtà appare comunque diversa, si prospettano ancora riduzioni di rendite per almeno il 10% degli assicurati e tagli alle rendite per invalidi con figli a carico. A pagare saranno ancora una volta gli invalidi e gli assicurati.

Ma il problema deve essere analizzato anche sotto qualche altro punto di vista. Infatti i risultati ottenuti dalle revisioni dell’AI vengono valutati positivamente per quel che riguarda la riduzione delle rendite, ma ancora non è dato di sapere che ne è stato del reinserimento professionale? Quanti sono coloro che hanno beneficiato delle misure di reinserimento professionale? Cosa fanno,  a quali condizioni di lavoro e di salario sono impiegati?

Difficile saperlo, stando ai primi dati la Svizzera rimane uno dei paesi nel quale il tasso di lavoratori disabili è decisamente molto basso. Del resto oggi come oggi il mercato del lavoro più che includere tende ad escludere anche chi problemi di salute non ha.

Siamo in un situazione economica e sociale difficile nella quale non si creano posti di lavoro, ma si distruggono. Affidarsi unicamente alla buona volontà del mercato e delle aziende per permettere il reinserimento lavorativo appare per lo meno illusorio.

Infine se è pur vero che in alcuni casi il reinserimento professionale può essere un elemento per migliorare la qualità di vita di una persona considerata disabile, per permettergli di vivere a contatto con altre persone e di reintegrarsi nella società, in altre situazione il reinserimento lavorativo potrebbe rappresentare in realtà un rischio.

Sappiamo bene come il lavoro sia molto spesso fonte di patologie fisiche e psichiche. Il progresso tecnologico degli ultimi anni non ha certamente permesso di rendere il lavoro meno nocivo da un punto di vista fisico. Tutte le statistiche dimostrano come negli ultimi anni non ci sia stato nessun miglioramento per quel che riguarda l’esposizione dei lavoratori e delle lavoratrici ai rischi fisici del lavoro (sollevare carichi pesanti, assumere posizione scomode, lavorare a ritmi elevati ecc.). Accanto a questi si  presentano con sempre maggior frequenza quelli che vengono chiamati i rischi psicosociali del lavoro, legati prevalentemente all’organizzazione del lavoro, all’autonomia che i singoli lavoratori hanno nello svolgimento della loro professionale e alle pressioni esercitate dall’alto.

Ormai nessuna categorie professionale è esente da questi rischi. Il lavoro è diventato molto spesso fonte di malattia e di invalidità.

A questo si aggiungono le politiche di flessibilizzazione e di precarizzazione delle condizioni di impiego. Lavoro temporaneo, su chiamata con orari flessibili sono ormai all’ordine del giorno con conseguenze importanti sulla qualità di vita dei lavoratori e dele lavoratrici. Come pensare quindi, in questo contesto, di portare avanti una politica di reinserimento professionale? In molti casi significherebbe rimettere l’invalido in una situazione di ulteriore rischio potenziale.

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Se si vuole realmente portare avanti una politica di reinserimento professionale che possa giovare agli invalidi, si tratterebbe di riflettere seriamente sulle attuali condizioni di lavoro, agire per modificarle e per renderle meno nocive e pericolose. In questo modo si eviterebbe anche di creare nuovi invalidi da lavoro. Una cosa non da poco.