(di Anna Biscossa – docente)

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L’apprendistato in azienda è un periodo molto importante nella vita di una persona.
Certo non è il solo, ma l’apprendistato segna un cambiamento davvero profondo e repentino nella vita di un giovane. Improvvisamente, quasi da un giorno all’altro, la ragazza o il ragazzo si deve assumere la piena responsabilità del proprio agire.
E’ una responsabilità pesante che deve crescere in fretta, molto in fretta per poter essere giocata al meglio e quando serve.
E’ una responsabilità pesante perché mentre si pretende dall’apprendista che dia tutto se stesso per diventare un lavoratore qualificato, formato e capace di garantire affidabilità e certezze al mondo del lavoro, nella quotidianità gli si dimostra che l’azienda, l’economia non sono più capaci e spesso nemmeno vogliono più garantire alcuna certezza.
Difficilmente, nell’azienda, ci sarà, a formazione completata, un posto di lavoro e se poi ci dovesse essere, questo posto di lavoro non sarà comunque né garantito a vita, né sempre e comunque riconosciuto per il valore che ha.
E allora la responsabilità diventa immensa perché l’apprendista deve formarsi con grande determinazione e motivazione, pur vedendo che in cambio difficilmente riceverà qualcosa di analogo valore.
Insomma deve crederci a prescindere, come dicono i miei ragazzi.

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A prescindere da un futuro certo, a prescindere dal fatto che da un lavoro qualificato e serio si abbia il diritto di pretendere un riconoscimento contrattuale e salariale adeguato al valore del proprio lavoro, a prescindere dalla continuità dell’azienda.
Intendiamoci, esistono alcune lodevoli eccezioni, soprattutto nella piccola, media impresa dove la responsabilità sociale delle imprese continua strenuamente a resistere.
Ma per molti apprendisti il contesto è quello sopra ricordato.
E non basta ancora! All’apprendista si chiede anche di imparare ad avere un bel po’ di competitività aggiuntiva, che cresce durante la formazione, coscienti che se esiste una possibilità di lavoro, questa va presa al volo, anche contro gli interessi del proprio compagno di formazione.
Del resto l’apprendistato, per scelta, è profondamente inserito nel mondo del lavoro e nei meccanismi economici. Se l’economia è così distorta, se così insicuro ed effimero è diventato il mondo del lavoro l’apprendistato si trasforma e si plasma adeguandosi ad esso.
Questi futuri lavoratori sono più disarmati dei già disarmati lavoratori formati e con esperienza, sono meno esperti, sono più influenzabili, sono molto semplicemente degli adolescenti che devono quasi sempre fare i conti con sé prima ancora che con tutto quanto sta loro attorno.
E allora?
Ci sarebbe l’ipotetica alternativa di evitare loro questo duro confronto continuo con la realtà, pensando a formazioni anche pratiche dentro le scuole. Personalmente, però, non sono una fautrice di questa ipotesi.

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Togliere la formazione dal mondo produttivo reale sarebbe, a mio giudizio, un errore perché in questo modo non aiuteremmo affatto questi giovani a prepararsi alla realtà del mondo del lavoro. Sforneremmo persone meno pronte, meno consapevoli, meno “armate” ad affrontare il mondo del lavoro.
Ma togliere loro la speranza fin dall’inizio della formazione sta diventando altrettanto pericoloso e potrebbe essere dirompente rispetto alla loro effettiva crescita come persone e come lavoratori.
Credo che possa esistere una soluzione e potrebbe consistere nell’offrire a questi giovani, dopo la formazione, un periodo di pratica professionale garantita nelle aziende (non necessariamente solo in quella in cui ci si è formati) con l’istituzione di un fondo (finanziato magari su modello di quello per la formazione professionale) che copra i costi di questo inserimento, purché l’inserimento in azienda sia garantito a tutti.
I giovani conoscerebbero le aziende facendo pratica come qualificati nelle stesse, le aziende conoscerebbero i giovani potendone apprezzare qualità e meriti.
E forse a questi giovani potrebbe essere restituita la speranza di potercela fare!