(di Angelica Lepori)
E’ la notte del 6 dicembre 2007, nel capannone della linea 5 della Thyssen Group di Torino divampa improvvisamente un incendio. Nel terribile rogo muoiono 7 operai. Una tragedia
annunciata, l’azienda aveva previsto di trasferire lo stabilimento più a sud e aveva quindi risparmiato sui sistemi di sicurezza. Un modo esemplare di rispettare l’idea di Giulio Tremonti
secondo il quale la “sicurezza è un lusso che non possiamo permetterci”.
Questa triste storia è stata raccontata in un bellissimo e durissimo film di Mimmo Calopresti intitolato la “fabbrica dei tedeschi”, che attraverso le voci dei parenti delle vittime e dei colleghi di lavoro racconta il dolore e la rabbia di un’intera città colpita così duramente.
Il 16 aprile del 2011 è stata scritta un’altra pagina di questa triste storia. Infatti la seconda corte d’assise di Torino, presieduta da Maria Iannibelli, ha condannato Harald Espenhahn, amministratore delegato della Thyssen, a 16 e sei mesi; Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafuerri a 13 anni e 6 mesi e Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi. L’accusa è pesante: omicidio volontario con dolo eventuale per l’amministratore delegato e cooperazione in omicidio colposo per gli altri manager. Inoltre la corte ha accordato un risarcimento di un milione di euro al Comune di Torino, di 973.300 euro alla Regione Piemonte, di 500 mila euro alla Provincia di Torino e di 100 mila euro ciascuno ai sindacati Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uim-Uilm, Flm-Cub. Cento mila euro di risarcimento anche all’associazione Medicina Democratica.
La sentenza ha fatto molto discutere. I dirigenti della Thyssen l’hanno giudicata ingiusta, vergognosa e infamante. Per i famigliari delle vittime è stata sicuramente una piccola vittoria che evidentemente non può cancellare il dolore delle perdite subite.
Si tratta comunque di una sentenza importante. Per la prima volta i dirigenti di una grande azienda vengono condannati per essere venuti meno al rispetto delle norme di sicurezza, in questa causa si è potuto provare che l’azienda aveva volontariamente risparmiato sulla sicurezza degli impianti mettendo coscientemente in pericolo i lavoratori dello stabilimento.
Con questa sentenza si supera finalmente l’idea dominante che i rischi e gli incidenti sul lavoro siano inevitabili e che quindi non esistono responsabili. Si afferma la dignità del lavoro e dei lavoratori e l’importanza di garantirne la sicurezza.
Ogni anno nel mondo circa 2 milioni di lavoratori muoiono sul lavoro, di questi circa 12mila sono bambini.
Inoltre il lavoro è sempre più fonte di patologie di origine sia fisica che psicologica. Se fino alla fine degli anni ’80 si assisteva ad una lenta, ma tendenziale, diminuzione delle patologie legate al lavoro e dei rischi a cui i lavoratori e le lavoratrici erano esposti, a partire dagli anni ’90 questa tendenza si è interrotta.
Secondo alcuni dati forniti dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di lavoro infatti, negli ultimi 15 anni non si è assistito a nessun tipo di miglioramento per quanto riguarda l’esposizione dei lavoratori ai rischi tradizionali del lavoro (ritmi elevati, carichi pesanti, posizioni scomode, esposizione a sostanze tossiche, ecc.).
Secondo i dati del 2010 circa il 60% dei lavoratori europei e il 71% di quelli Svizzeri sostiene di dover lavorare a ritmi elevati per almeno un quarto del suo tempo di lavoro; il 62% dei dipendenti europei e il 66% di quelli svizzeri ritiene di avere tempi di consegna troppo stretti.
Una recente analisi dei dati provenienti dall’inchiesta svizzera sulla salute (vedi J.F. Marquis, “Conditions de travail, chômage et santé”, Ed. Page2, Losanna, 2010) ha messo in evidenza la situazione dei salariati e delle salariate svizzere. Anche in questo caso i dati sono eloquenti. Il 31% degli uomini e 32% delle donne è costretto a lavorare con posizione scomode, 61% degli uomini e 63% delle donne deve stare in piedi o camminare mentre lavora, 48% degli uomini e 46% delle donne svolge movimenti ripetitivi della mano o del braccio. L’autore mette in oltre in evidenza come il 42% degli uomini e il 37% delle donne è sottoposto, durante almeno un quarto del suo tempo di lavoro, a 3 rischi fisici cumulati.
A questo vanno aggiunti i cosiddetti rischi piscosociali che fanno si che il 56% degli uomini e il 47% delle donne deve essere costantemente molto concentrati; il 50% degli uomini e 40% delle donne
non ha tempo per finire il proprio lavoro; il 36% degli uomini, e 50% donne non può fare una pausa quando vuole. Infine il 35% degli uomini e il 43% delle donne non può mettere le proprie idee al lavoro e il 25% degli uomini e il 22% delle donne non riceve aiuto dai colleghi.
Una fotografia della situazione che rende conto di come ancora oggi i lavoratori e le lavoratrici siano sottoposti a rischi continui che pregiudicano in modo importante la loro salute.
Patologie come il mal di schiena, i dolori muscoloscelettrici, l’ansia, l’insonnia e la depressione sono al’ordine del giorno.
Si tratta per lo più di malattie che non vengono riconosciute come malattie professionali i cui costi ricadono inevitabilmente sulle casse malati e quindi in ultima istanza sul singolo cittadino. Questo perché il nostro sistema di assicurazioni prevede una lista molto ristretta di malattie considerate di origine professionale e inoltre richiede di provare il legame di causa effetto tra condizioni di lavoro e malattie verificata.
Un limite del nostro sistema assicurativo che si aggiunge ad alcuni altri di carattere più generale.
Infatti l’assicurazione infortuni e malattie professionali si basa sul principio dell’indenizzazione dei rischi. I premi dell’assicurazione sono generalmente legati ai rischi presenti nel settore o al numero di incidenti. Più questi aumentano, più aumenta anche il premio che il datore di lavoro deve pagare. In questo modo il rischio viene monetarizzato. La salute e la sicurezza sul lavoro assumono quindi unicamente un carattere finanziario . In questo modo i rischi sul lavoro vengono in un certo senso legittimati a esistere. Come afferma la ricercatrice francese Anne Thébaud Mony siamo di fronte a un paradosso “i compromessi sociali sulla base dei quali, nei diversi paesi europei, furono votate le leggi per la protezione della salute dei lavoratori, non hanno fondato un diritto degli operai alla protezione contro gli incidenti del lavoro – in una logica di salute pubblica e di controllo dei rischi – ma costituiscono, in forme diverse una legittimazione dei rischi professionali come inerenti al processo di produzione e quindi della loro necessità di essere coperti in una logica puramente assicurativa”. (vedi A. Thébaud Mony, L’impact de la précarité et de la flexibilité sur la santà des travailleurs, Newsletter BTS, 2001, nostra traduzione).
Una visione che la sentenza della Thyssen rimette fortemente in discussione affermando con forza che gli incidenti sul lavoro non sono una tragica fatalità senza responsabili, ma sono il frutto di scelte deliberate di chi vuole a tutti i costi risparmiare sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici.
Speriamo che questa sentenza possa rappresentare un primo elemento per cambiare una mentalità fortemente radicata anche dalle nostre parti.