(di Mauro Guindani)
A voler essere onesti, uno non può scrivere che dei propri vissuti personali, ben sapendo di quanto soggettivi i giudizi e le valutazioni che ne derivano possano essere, ma sapendo anche che è proprio la coscienza di questa soggettività e la mancanza assoluta di voler esprimere una verità “obiettiva” a rendere questi scritti più credibili e, forse, più accessibili alla risonanza altrui.
È quello che mi è successo con una serie di articoletti sul Corriere del Ticino, iniziata per caso nel febbraio 2008 con la reazione ad un articolo denigratorio sul maggio ’68 che mi era sembrato indegno e mi aveva come ferito sul piano personale, tanto che risposi di botto con una lunga lettera al giornale (cosa che mai avevo fatto fino ad allora) che, a mia grande sorpresa, venne pubblicata integralmente, senza nemmeno una virgola di taglio. Quella lettera – pubblicata nella rubrica “Opinioni”, sempre corredata della fotografia degli autori – suscitò una serie di reazioni tanto da parte di conoscenti e di amici, quanto di persone sconosciute, che mi fermavano per strada, avendomi riconosciuto dalla fotografia, per dirmi quanto avessero apprezzato quella mia reazione. Mi ero da poco, e non senza reticenze, ristabilito in Ticino, dopo un’assenza di quarant’anni prima in Francia poi in Germania, e mi sentivo ancora estraneo nel mio Paese, pur capendo vagamente che erano qui le mie radici da ritrovare. Quella lettera pubblicata e la serie di articoli che seguirono fu, senza che l’avessi voluto, il miglior modo di riprender davvero contatto con il Paese e i suoi problemi. Vecchi compagni di scuola, che non vedevo da decenni, si rifecero vivi; persone sconosciute, che neppure sapevano il mio indirizzo, mi raggiunsero tramite il Corriere o mi cercarono sull’elenco telefonico. Capii che con quella reazione personale avevo centrato un problema che non era soltanto mio ma, perlomeno, di tutta una generazione che si riconosceva in quel vissuto. Era iniziato un dialogo. Solo pochi giorni dopo scrissi di getto un’altra “opinione”, frutto anche questa di un profondo vissuto emozionale, ma, questa volta, collettivo: i funerali del giovane Tamagni a Gordola. Scrivevo tra l’altro in quell’articolo: “Tacere era la cosa più giusta; bastava la presenza della folla, bastavano gli sguardi smarriti e perplessi, l’assoluta assenza di sentimentalità e di pathos. Bastavano pochi gesti essenziali : cenni del capo di saluto composto e senza sorriso, coppie di giovani o di anziani che si tenevano vicini vicini, in un contatto reale di corpo, come per assicurarsi del calore dell’altro. Era bello il Ticino in quel momento. Sono riuscito ad amare il mio paese.
Ma il dopo richiede la parola, e non è semplice, nell’inflazione del momento, decidere quale sia la più idonea a dar voce alla realtà. “
Fu questo “bisogno urgente di parola”, tanto come arma contro la violenza quanto come legame di solidarietà, la molla che fece scattare ulteriori reazioni a quell’articolo (scritto, questa volta, a ragion veduta), indicandomi la via da seguire che rispondeva a un bisogno impellente: un bisogno che non era più soltanto mio ma rispecchiava quello di molti altri.
In quel momento scoppiò lo sciopero delle Officine.
La terza “Opinione”, che segnò l’inizio di quella che ormai si stava affermando come una serie, fu la risposta a quell’evento. Scrivevo allora:
“Sono proprio quelle stesse persone del silenzio composto di Gordola che ho incontrato a Berna e a Bellinzona. Ma non tacevano più; adesso gridavano. Gridavano il loro sdegno di fronte all’ingiustizia e al malgoverno, uniti nello stesso grido come prima nello stesso silenzio smarrito.”
E ancora:
“Come non rispondere solidali a tanta chiarezza ? Come non associarsi allo sdegno, scandire le loro parole con la stessa emozione, la stessa determinazione ? Come non seguirli sulla strada, nelle piazze, sentendosi parte di quella forza reale fatta di esseri umani che non chiedono che il diritto alla vita e al lavoro e felice di fare insieme a loro, finalmente, qualcosa che abbia un senso ?
Il Ticino intero ha saputo farlo senza mezzi termini. Ancora una volta, a così breve scadenza, e ancora più intensamente, ho amato il mio paese.”
Il dialogo così iniziato continuava sulla stessa linea anche nell’articolo seguente, sulla manifestazione del 1. Maggio di quell’anno a Bellinzona, caduta proprio nel quarantesimo anniversario di quel maggio francese che aveva sconvolto i miei vent’anni, riportandomi così, di botto, davvero nel mio Paese. In quell’articolo citavo il libro di Mario Capanna appena uscito all’occasione: “Non occorre un altro sessantotto. È necessario qualcosa di più e di meglio se si vuole che la storia prosegua.” E aggiungevo, commentando quella citazione: “Si proverà. Io, certo, non me lo farò dire due volte. E anche a costo di cader di nuovo e di rompersi il naso, val la pena di rialzarsi e continuare a camminare. A qualsiasi età.”
Un cerchio si chiudeva e dava un senso alle cose. Ero tornato.
Nel giro di un anno quegli articoletti erano ormai diventati una ventina, e giravano sempre intorno agli stessi temi: la reazione alla violenza tramite l’arma della parola, la ricerca di un’identità collettiva del Paese, sempre però basata su un vissuto personale profondo. L’azione “Giù le mani”,
che ne era stata la molla principale, non aveva perso per me di vigore. Nel primo anniversario dello sciopero, nel marzo 2009, scrivevo:
“Rivedendo uno per uno quella ventina di articoletti che da un anno a questa parte sono apparsi su questa rubrica sotto il nome (e la faccia) del sottoscritto, mi accorgo con piacere di una linea di pensiero che, nonostante le diverse tematiche affrontate, si ripete in modo coerente. Visto che non scrivo per mestiere né per dovere, ma seguendo l’impulso di un bisogno, è forse il caso di chiedersi cos’è questo bisogno. (…) È il bisogno di dire, di manifestare la propria opinione per opporla a o confrontarla con quella dell’altro, ma anche un bisogno di ascoltare, un bisogno di dialogo. E la stampa quotidiana, se fa bene il suo mestiere, può ancora esserne un veicolo efficace.
Uno dei tanti, certo, perché ci sono altre occasioni per favorire il dialogo. Quella di sabato alle Officine di Bellinzona ne è stata, di nuovo, una davvero formidabile.”
E, solo sei mesi più tardi, in un articolo del settembre successivo dal titolo “Dalla prospettiva dei fili d’erba”, scritto in occasione dell’incontro “Una, dieci, cento Officine”:
“È questo il Ticino che amo, determinato e concreto, sveglio e aperto al dibattito, caloroso e partecipe, non contaminato da piccole beghe personali o di partito ma deciso a dare un senso alla propria vita prendendo i problemi di petto, senza tergiversare.
Sono questi quei fili d’erba che, pur consapevoli della propria piccolezza sotto le zampe degli elefanti che fanno tremare la terra, risollevano il capo ad ogni scossa, coscienti di essere loro a formare quel prato verde che non può morire. Ed è su questo nostro prato – di cui c’è davvero ragione di andar fieri – che sono venuti dai cantoni della Svizzera tedesca e francese, dall’Italia, dalla Germania, dall’Austria, dalla Francia, e fin dal Brasile altri fili d’erba di altri prati determinati a rifiorire, anche sotto le zampate degli elefanti.”
Il secondo anniversario dello sciopero, nel marzo 2010, fu anche il momento della nascita dell’Associazione Giù le mani, e in quell’occasione scrivevo: “…ci sono due tipi di lotta che, specialmente in tempi di pace (relativa), è bene saper distinguere: “la lotta contro” e “la lotta per”. Se è con un chiaro “no” che la lotta era iniziata (e dunque contro una decisione giudicata arbitraria) dalla fine dello sciopero fino ad oggi l’azione dei combattenti si è trasformata in una “lotta per” che, cifre e successi alla mano, va ben al di là del mantenimento di uno statu quo, ma è il tentativo di proporre soluzioni puntuali e concrete, attraverso l’esempio pratico, alla situazione di disagio economico in cui, come tutto il resto del mondo, anche il nostro Paese si trova.”
Ormai quegli articoli sono diventati più di 60, e, puntualmente, la forza motrice dell’azione delle Officine ritorna a farmi sentire partecipe di un’azione condivisa.
Se è sulla stampa che sono abituato a dire la mia, pur non facendo parte della generazione di internet che predilige esprimersi velocemente sui blog, non sarò certo io a disdegnare l’impatto e la portata di questo nuovo sito, che, se usato con criterio, potrà essere un’occasione in più di scambio e di dialogo.